Spessissimo mi trovo a sentire marketing
manager che mi dicono "dobbiamo fare un sito che risponda ai bisogni dei
nostri clienti", oppure direttori che ci dicono "vogliamo uno
strumento che sia davvero utile". A questo punto tipicamente iniziamo a
parlare di ricerca sul campo, di design thinking, ecc.. Si genera però quella resistenza iniziale che
sfocia nella frase: "ma noi sappiamo benissimo cosa vogliono i nostri
utenti!". Lo sappiamo davvero? Abbiamo mai messo alla prova e validato le
nostre supposizioni con dati alla mano?
Martin Lindstrom, consulente strategico di
alcune delle più grandi aziende nel mondo, presenta al Philip Kotler Marketing
Forum il tema del suo ultimo libro “Small
Data - i piccoli indizi che svelano i grandi trend”: quelle apparentemente
insignificanti osservazioni di comportamenti che identificano uno più bisogni
dei clienti a cui finora non è stata data risposta.
Osservando
col giusto approccio si evidenziano particolari esigenze, anche indirette, che
se soddisfatte possono dare grandi spinte al business che vanno ben oltre il
solo marketing. Per fare qualche esempio, i dirigenti LEGO
pensavano che le dinamiche di reputazione sociale nei gruppi di adolescenti fossero
totalmente fuori dal proprio target potenziale e invece si rivelano la chiave
della più grande innovazione che il mercato toys avesse mai visto da tempo,
nella grande distribuzione invece l'azienda a conduzione familiare Lowes ha
trasformato i suoi punti vendita in luoghi che restituiscono ai clienti la possibilità
di liberarsi da responsabilità e preoccupazioni tornando bambini, ora sono luoghi
che li rendono di fatto felici.
Di fatto ce ne sono molti di modelli che
esprimono questo tipo di dinamica; il grande trend che sta portando alla
ribalta il design thinking ha lo stesso focus, ovvero lavorare sulle
innovazioni di significato e tutti partono dall'osservazione accurata,
dall'ascolto e dalla raccolta di indizi sulle caratteristiche etnografiche
della comunità.
Perché chiamarla la più potente tecnologia
mai creata in ambito business?
Da tempo nelle aziende si è capito che il
punto vincente di qualsiasi campagna è quello di rispondere ai cosiddetti Customer Insights e che l'esperienza utente è la chiave della Digital Transformation. Tutto
sommato fin qui nulla di veramente nuovo, in fondo anche nel XV secolo avevano
capito che l'unico modo per permettere la diffusione dei testi scritti era
quello di accrescerne la scala di produzione. Farlo però non è facile come
dirlo e servì l’arrivo di Gutenberg e dei caratteri mobili per permetterlo.
Allo stesso modo gli Small Data sono inneschi
delle idee innovative e delle risposte trasformative per rivoluzionare i brand.
Certo non si è inventato Martin Lindstrom l'osservazione di per sé. Quello
che ha impatto sullo stato dell’arte è che finalmente si parla con enfasi della
ricerca etnografica e soprattutto si sistematizza un processo che permette
da essa di far emergere ciò che di più prezioso l'essere umano ha a
disposizione: l'intuizione.
Dove ci porta tutto questo?
È chiaro che il nome stesso, Small Data,
nasce in contrapposizione con i Big
data che come tutti sappiamo non riguardano certo le emozioni, bensì i
database, le metriche, gli algoritmi e molto altro. Ciò che in fondo Lindstrom
ci sta dicendo quindi è che i dati danno la priorità all'analisi e permettono
un processo logico e deduttivo. Il vero focus dell'innovazione invece
probabilmente deriva da un altro tipo di processo, molto più complesso da far
emergere ma ben più potente ossia quello induttivo. Pensandoci bene questo è
anche ciò che contraddistingue una delle forme più semplici di machine learning
supervisionato, dove la macchina osserva l'interazione con il mondo esterno e
sulla base dei feedback prende le sue decisioni. Queste vengono migliorate di
volta in volta grazie ad un training iniziale che gli fornisce la prospettiva
di base.
Tutto questo risuona perfettamente con
quanto presentato da Lindstrom, non è sorprendente? Mentre cerchiamo di
spiegare ad una macchina come reagire correttamente al mondo, la riflessione diviene così profonda che di
fatto ci fa tornare indietro a riscoprire la nostra vera natura, la nostra
primaria sorgente di innovazione.
Probabilmente è facile immaginare che il
nostro Google Home domani potrebbe fornirci ciò che ci serve prima ancora che
glielo chiediamo. Questo deriva non solo dalla altissima capacità
computazionale che gli permette di individuare correlazioni molto sofisticate
nei comportamenti, ma anche dalla sua tecnologia di Voice Sniffing. Che altro non è se non ascolto e osservazione
continua e intensiva in ambiente non controllato.
A questo punto lo sforzo di Lindstrom è
davvero apprezzabile: farci riscoprire un processo che per molti è nascosto o
innato, ma per altri è lontanissimo, annebbiati come siamo dai gadget della
tecnologia e dalle sirene della comunicazione. Perché se non ne diventiamo più
consapevoli, se lo diamo per scontato, se non iniziamo un processo misurabile
che possa perfezionarsi nel tempo il rischio vero è che ad un certo punto non
ci sia più scelta: dovremo prendere per buono che siano le intelligenze
artificiali a dirci quali sono i nostri desideri e come soddisfarli anche
meglio di come noi abbiamo mai fatto!
Questa è esattamente la logica con cui
affrontiamo le sfide più ambiziose dei nostri clienti per ottenere risultati
tangibili con una forte componente di innovazione. D’altronde come ci diceva
già nel 2000 il Cluetrain Manifesto “I mercati sono fatti di esseri umani, non
di segmenti demografici”, tuttavia per disegnare davvero esperienze che
rispondano ai bisogni degli esseri umani è necessario diventare osservatori
esterni, estranei alla quotidianità e riscoprire i significati nascosti dietro
ai singoli comportamenti.
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