L’analisi di qualsiasi fenomeno sociale o tecnico è
sempre difficile e dipende in gran parte da quale angolo si scelga per
osservarlo: se vogliamo parlare di rivoluzione tecnologica, il primo rischio
che corriamo è di porci dall'angolo di osservazione sbagliato.
La rivoluzione tecnologica di cui parlo è naturalmente
la rivoluzione digitale in corso. Mi pare pacifico che essa non sia una
rivoluzione solo "per tecnici": l’innovazione prorompente degli
ultimi anni è molto pervasiva, molto diffusa e con un evidente impatto sociale.
Altrettanto evidente è che l’Italia sia in ritardo, rispetto ad altri ed anche
ad alcune opportunità.
Come questa rivoluzione possa essere non solo
interpretata ma anche cavalcata dal nostro Paese è ciò di cui vorrei scrivere
qui.
Il punto di osservazione, dicevo: non concentriamoci
sulla tecnologia e sulle sue mirabolanti applicazioni, si chiamino IOT o
Intelligenza Artificiale. Questa è “la luna” del Ventunesimo secolo e credo che
sia ben visibile a tutti: un mondo dove l’interazione fra materiale e
immateriale cambierà il nostro modo di vivere, lavorare, comunicare e
utilizzare le risorse del pianeta.
Vorrei concentrarmi invece sul percorso per sfruttare
appieno questa opportunità: “il dito”, ossia le persone che rendono possibile
la rivoluzione abilitata dalle tecnologie.
Peraltro, da che mondo è mondo le rivoluzioni le fanno
le persone, non i carri armati da soli…
La vera opportunità è per le persone: l’Uomo al centro della Rivoluzione tecnologica, una cosa che in Italia sappiamo fare bene.
Il nostro Paese ha affrontato altre rivoluzioni
partendo svantaggiato o in ritardo. Negli anni ’50 eravamo un paese che aveva
perso la guerra, agricolo e ferito: ciò nonostante abbiamo saputo creare e
sviluppare quella che è poi diventata la quinta potenza industriale del mondo.
Quali sono stati gli ingredienti di allora, del
miracolo economico degli anni ’60 che non ebbe nulla di miracoloso, perché fu
il frutto di durissimo lavoro e sacrificio, dietro ad un grande ideale
nazionale?
Allora, come oggi, sarebbe stato poco utile puntare
solo alla leadership tecnologica.
Quello che premiò allora fu la competenza costruita negli istituti tecnici e nelle università, la innovazione, lo stile, congiunti alla tecnologia.
Non credo che sia un caso che nell'arco di 10 anni fra il ‘55 ed il ‘65 l’Italia, scienziati Italiani o di origine Italiana portarono a casa 4 premi Nobel per la chimica, la fisica e la medicina, performance mai più ripetuta da allora.
Oggi dobbiamo porci con lo stesso coraggio, investendo su ciò che è immutato nel nostro DNA: la forza delle persone, la capacità di mettere l’Uomo al centro delle scelte, la competenza, l’esperienza, la forza delle idee.
Abbiamo a disposizione una piattaforma tecnologica di
opportunità infinita e mai vista: su questa può nascere il nuovo boom italiano.
Se riuscissimo in questo sforzo, potremmo certamente
puntare ad un nuovo miracolo economico: un fenomeno basato sugli stessi
ingredienti di allora, ma con nuove tecnologie e prodotti sulle quali fare
leva: non le raffinerie di Enrico Mattei né la 500 dell’Ingegner Giacosa, ma i
servizi digitali, il tech-food e l’agri-tech, la cultura digitale, il software.
Non è uno slogan: il brand Italia ha una connotazione
positiva e addirittura d’eccellenza per tutto ciò che si può collegare al
nostro patrimonio artistico, culturale e naturale: cibo, moda, design,
automobili e destinazioni turistiche sono ciò che si tende ad associare al
brand Made in Italy: peraltro queste eccellenze hanno una caratteristica
davvero unica. Non sono copiabili e non sono replicabili: Pompei e la Cappella
Sistina non si rifanno con una stampante 3D…
In Dedagroup siamo convinti che l’Italia abbia diverse
produzioni d’eccellenza anche fuori da questa tradizione e anche in contesti
dove la bellezza è meno visibile, pur se basata sullo stesso straordinario
capitale umano: produzioni hi-tech frutto della creatività, della dedizione,
della cura dei dettagli e della capacità di costruire utilità diffuse e
distribuite. Ad esempio, nelle biotecnologie o nella meccanica di precisione e
– perché no? – nel software.
Ecco allora che non nella tecnologia, ma in ciò che
l’ingegno umano ne estrae e soprattutto nell’impatto sociale che riesce ad
ottenerne, si trova la grande opportunità del nostro tempo. Di questo vediamo
esempi tutti i giorni e in tutti i contesti, anche in quelli apparentemente
lontani dallo stereotipo dell’innovazione, come i grandi Enti della PA o gli
archivi e le biblioteche storiche, perché con molte di queste eccellenze
lavoriamo, mettendo a loro disposizione le nostre soluzioni digitali.
Come dicevamo all’inizio, i rischi sono connessi al concentrarsi sulla luna - la piattaforma tecnologica – e sulle sole tecnologie. Ma anche sul rifiuto della piattaforma. Personalmente, reagisco sempre con preoccupazione quando sento echi di Ned Ludd come esempio da imitare, anche se non si parla più di distruzione dei telai a vapore ma di tassazione dei robot, di rifiuto delle nuove produzioni o del boicottaggio delle tecnologie. Così come trovo sia ancor più pericolosa la convinzione, che sento anch’essa troppo spesso emergere, che queste opportunità siano riservate a una tribù di giovani nerd startupper seriali…
Occorre invece pensare, e promuovere l’idea, che le opportunità della rivoluzione digitale siano per tutti e alla portata di tutte le aziende ed organizzazioni, private e pubbliche che siano.
Qualche giorno fa abbiamo pubblicato un bel contributo
del collega Marco Franchi intitolato “Il martello non fa
l’artigiano”, dove si
parla proprio di nuove tecnologie e di contributo umano, di human o brain
touch.
Negli stessi giorni Antonio Massari ha parlato di Pubblica
Amministrazione e Blockchain analizzando applicabilità e limiti di questa nuova
tecnologia, così come ha fatto il mio amico Enrico Cereda Amministratore
Delegato di IBM Italia, che ha scritto un bell'articolo su Il Sole 24 Ore per
spiegare in modo semplice e chiaro come la stessa Blockchain possa creare
opportunità per l’Italia ed il suo tessuto di medie e piccole
imprese.
Tutti esempi di come una applicazione intelligente
delle tecnologie - ossia mediata e gestita dall'uomo – possa cambiare, in
meglio, servizi, ambiti e spazi assai diversi fra loro, ma tutti essenziali per
il nostro Paese.
Come si fa, quindi, a fare propria questa rivoluzione?
Credo che la parola chiave sia una: “saper fare”, e che occorra investire in
entrambe le metà che la compongono.
Nel sapere, nelle competenze digitali a partire dalla
scuola e dall'Università – e bello sarebbe vedere segnali in questo senso - ma
anche in azienda e per tutta la vita.
In Dedagroup abbiamo avviato percorsi molto innovativi
sia per inserire i neolaureati in azienda (la Dedagroup Digital Academy in partenza fra pochi giorni con la terza
edizione) sia per favorire lo sviluppo delle professionalità dei giovani ad
alto potenziale già presenti in azienda (con un vero e proprio Master interno
della durata di 18 mesi).
E nel fare, ossia nell'applicare le tecnologie e nel
farle vivere, non solo realizzando progetti con i nostri clienti ma anche
sperimentando sulla frontiera della ricerca applicata. L’esempio è quello del Co-Innovation
Lab avviato con
la Fondazione Bruno Kessler di Trento, che possiamo considerare la
realizzazione pratica proprio del “sapere fare”. Con un modello aperto e pronto
ad accogliere nuove realtà.
Il brand Dedagroup quest’anno compie il suo primo
decennio. Siamo partiti in piccolo e da lontano, ma sempre crescendo ci siamo
affermati come una delle realtà più rilevanti della rivoluzione digitale
all'italiana: da sempre Powered by (Dedagroup) People e sempre meno soli, con i
nostri clienti e la rete sempre più ampia di aziende, enti, start-up,
università e centri di ricerca con cui avviamo piccole ma grandi “rivoluzioni”
quotidiane.